lunedì 21 novembre 2022

Lo straniero

Nei primi giorni del giugno del 1968 in paese era arrivato uno strano signore. Arrivò sulla piazza con una vecchia auto,  carica di bagagli anche sul portapacchi. L'auto attirò l'attenzione dei ragazzi che stavano giocando a pallone.

Era una Multipla della Fiat, con la carrozzeria bicolore e  le ruote con una fascia bianca. Dall'auto scese un uomo alto, con i capelli imbrillantinati, pantaloni blu e camicia bianca e un fazzoletto rosso nella mano con cui si asciugava il sudore.


Si diresse verso il bar di Silvano, entrò, e chiese un bicchiere di spuma. Silvano lo servì e l'uomo gli chiese, dopo aver bevuto quasi d'un fiato la spuma: "Mi scusi, sto cercando la casa di Demetrio"... "E' quella dietro la scuola elementare ma non ci arriva con l'auto" disse Silvano.

"Lei - continuò Silvano - deve essere quello che ha affittato la casa". "Si, mi chiamo Leonardo, piacere di conoscerla" e tese la mano a Silvano che ricambiò la stretta.

Demetrio era emigrato da un paio d'anni in Belgio in miniera e non tornava mai in paese dove non aveva nessun legame e coi parenti non era mai andato d'accordo. 

Aveva provato a metterla in vendita ma non aveva trovato nessuno disposto a comprarla. Un amico che aveva un'agenzia immobiliare a Forte dei Marmi gli aveva proposto di affittarla, magari solo l'estate o tutto l'anno.

Qualche soldo ce l'avrebbe fatto e Demetrio aveva acconsentito. La casa l'avevano ripulita, dopo due anni in cui era stata sempre chiusa, e messa sugli annunci. E Leonardo l'aveva affittata per 4 mesi d'estate, da giugno a tutto settembre.

L'agente immobiliare era già arrivato un'oretta prima per dare aria alla casa ed entro nel bar. "Eccomi! La stavo aspettando, andiamo?" disse a Leonardo. Pagò la spuma, salutarono Silvano e andarono alla casa.

Sbrigarono le formalità e Leonardo ebbe le chiavi di casa. L'agente lo salutò dandogli il suo biglietto da visita e dicendogli che se avesse bisogno di qualsiasi cosa lo chiamasse.

La casa aveva tre stanze da terra a tetto unite da scale di legno interne. A pianoterra la cucina, al primo piano una camera da letto e un piccolo bagno e al secondo piano un'altra camera.

Leonardo tornò sulla piazza mentre Silvano e altri avventori commentavano l'arrivo dello "straniero".  Per i paesani quelli che venivano dalla piana erano tutti stranieri.

Leonardo chiese a Silvano se c'era qualcuno disposto ad aiutarlo a portare tutti i bagagli visto che da solo sarebbe stata dura.

"Sono disposto a pagare, c'è modo di farmi aiutare?" chiese a Silvano. "Ci sarebbe Camici con i suoi muli - rispose Silvano - E gli costerebbe solo un paio di fiaschi di vino"... " Va bene, grazie - disse Leonardo - Ah posso darle del tu? E anche se mi chiamo Leonardo tutti mi chiamano Leo".

Silvano annuì con la testa, usci sulla piazza e chiamò uno dei ragazzini. "Vai a chiamare il tù zio, e digli che porti i muli deve fà un viaggetto corto".

Dopo poco arrivò, preceduto dal rumore degli zoccoli dei muli, Camici. In realtà si chiamava Eufemio ma in paese lo chiamavano Camici come il mitico fantino di Ribot. Era una presa in giro visto che Eufemio aveva solo muli, una decina. 

E aveva proseguito il mestiere di suo padre. Il mulo era necessario per andare nei boschi e portare a valle il legname, per fare traslochi da paese a paese, per portare sabbia o cemento sulle mulattiere prima dell'avvento della strada asfaltata.

Era un uomo sui sessant'anni, nerboruto, asciutto e il volto segnato dal sole, una vecchia giubba militare e scarponi di vacchetta.

"Che c'ho da fà?" chiese a Silvano. "Devi aiutare questo signore a portare i bagagli alla casa di Demè - gli disse Silvano - Poi per il prezzo ti metti d'accordo con lui".

Leo si avvicinò a Camici tendendo la mano per presentarsi. Il mulattiere lo guardò e gli disse "Dov'è la roba?". Leo gli indicò l'auto. Camici si avvicinò alla macchina mentre i due muli erano fermi in mezzo alla piazza già con i basti montati.

Camici guardò i bagagli poi disse "Va bene, sono due viaggi, con due fiaschi di vino di Silvano e due pacchetti di nazionali te la cavi" e gli tese la mano dopo averci sputato nel palmo.

Leo ebbe un secondo di smarrimento poi gliela strinse. Ma la mano di Camici era nodosa e la stretta era una morsa. Dimenò la mano di Leo in su e in giù tre volte poi la lasciò questa volta sputando in terra.

L'operazione iniziò e dopo un'oretta e un paio di carichi i muli avevano trasportato tutti i bagagli. Camici caricava i basti poi incitava i muli, "Oh, vai!" e loro lentamente partivano verso la casa. 

Leo pagato il dovuto e ringraziato Camici e Silvano per l'aiuto parcheggiò l'auto dietro al chiesa e si avvio verso quella che sarebbe stata la sua casa in paese per quattro mesi.

Si sedette su una sedia in cucina, tirò fuori il pacchetto delle sigarette se ne accese una. Si guardò intorno, la cucina era grande e luminosa e sul pavimento di mattoni rossi c'erano ammassati ma in bell'ordine i suoi bagagli.

Camici aveva fatto un bel lavoro pensò. E non gli era costato nemmeno molto. Andò verso la finestra, guardò fuori e vide il cortile della scuola, la scuola e la cima del campanile che spuntava dai tetti delle case verso la piazza.

Spense la sigaretta in un bicchere, uscì e girò per le stradine del paese. Trovò l'alimentari e comprò poche cose per la cena, un paio di salsicce, un pezzo di formaggio un pezzo di pane.

La Ballina, era il soprannome della padrona dell'alimentari, gli fece il quarto grado. Di dov'era, come mai era in paese... Ah aveva affittato la casa di Demè e perchè?... Era con la moglie? Leo rispose mischiando verità e bugie.

Gli aveva detto che lui era aveva bisogno di una casa per per qualche mese in attesa che fosse pronta la sua nella piane (e non era vero)...che era di Forte dei Marmi e non era sposato ( ed era vero).

Pagò e la Ballina gli disse che se avesse voluto, la prossima volta,  poteva segnare. In paese il segnare era una pratica diffusa e necessaria. 

Si andava alla bottega, all'alimentari come dal macellaio, con un libriccino nero sul quale venivano segnate le spese fatte dal titolare dell'esercizio. E alla quindicina, per chi riceveva un anticipo sullo stipendio o alla mesata si provvedeva a saldare il debito.

Ovviamente ai bar del paese non c'era il libriccino ma pagamento anticipato per evitare che dopo qualche bicchiere fosse difficile riscuotere.

Leo riuscì a sganciarsi dalla Ballina e passò da Silvano. Entrò nel bar mentre a un tavolo stavano giocando a carte tra cristi e madonne. Prese un fiasco di vino, pagò e salutò Silvano.

Entrò in casa che stava facendo buio, accese la luce. Un piccolo lampadario rotondo fatto a piatto, con il bordo blu, con una lampadina fioca.

Consumò la cena, bevve un bicchiere  di vino, chiuse la porta e salì le scale. Nella camera c'era un letto matrimoniale in ferro e un vecchio materasso. Si sdraiò sul letto, spense la luce. Dalla finestra arrivava una piccola lama di luce del lampione davanti alla scuola.

L'odore di muffa non era così forte ma si sentiva. I pavimenti delle camere erano di legno come le scale. E i due odori si confondevano nelle narici.

Leo pensò che avrebbe messo a posto i bagagli il giorno dopo e si addormentò mentre le lucciole iniziavano a danzare nella notte.

Leonardo fu svegliato dal canto di un gallo. Guardò l'orologio erano le sei e stava albeggiando. Aveva dormito tutta la notte. Si alzò, si lavò il viso, si vestì e poi scese in cucina.

Si ricordò di non avere comprato il caffè. Non sapeva se il bar di Silvano era aperto a quell'ora. Bevve un bicchiere d'acqua e e uscì. La stradina che andava verso la piazza passava tra due muri di case. Era deserta ma da qualche finestra filtrava la luce.

Arrivò sulla piazza e vide che dentro il bar c'era la luce accesa. Non c'erano insegne al neon ma, sopra la porta, solo una bella insegna di legno su cui era scritto "Da Silvano, bar e spuntini" e di fianco alla porta una targa di lamiera con su scritto circolo Enal.

Entrò e vide Silvano intento a dare lo straccio in terra. "Buongiorno!" gli disse Leo. Silvano continuando a dare lo straccio rispose al buongiorno poi gli chiese come mai era già sveglio.

Leo gli raccontò che si era addormentato presto, che aveva dormito benissimo perché c'era un bel silenzio e che solo il gallo lo aveva svegliato. "Quello è Natalino, il gallo della casa accanto dove abita Marietto" disse Silvano.

"Ma è usanza mettere i nomi agli animali?" chiese Leo. "Si, da sempre ma il gallo si chiama Natalino perchè a Natale sarà messo in tavola. Se si chiamava Pasqualino ci sarebbe andato per Pasqua".

Leo non approfondì anche perché aveva bisogno di un caffè per svegliarsi del tutto. "Ieri mi sono dimenticato il caffè, posso averne uno?" chiese "Certo, la macchina è già accesa" rispose Silvano.

Gli fece il caffè poi gli disse se voleva una fetta di torta che faceva sua moglie Clara. Leo disse di si e Silvano gli disse di sedersi a un tavolo. Gli portò il caffè e una bella fetta d torta. E tornò a finire di passare lo straccio.

Leo bevve il caffè e mangiò la torta, era di mele, buona. Si alzò, pagò, ringraziò Silvano e gli disse di fare i complimenti alla moglie per la torta e uscì.

Rimase tutto il giorno in casa a mettere a posto i bagagli. Lasciò per ultimo un baule verde che mise in un angolo della cucina. Il pomeriggio tornò all'alimentari, comprò le cose che gli mancavano, pasta, formaggio, caffè, zucchero.

I primi giorni usciva presto, anche perché Natalino il gallo si esibiva ogni mattina. Andava da Silvano a fare la colazione poi passeggiava alla scoperta del paese. 


Lo vedevano passare, fermarsi a guardare, e rimettersi in cammino. In paese su chi era quello "straniero" si rincorrevano le voci. Ma non riuscivano a capire chi fosse e cosa facesse nella vita. "Sicuramente è uno ricco perché ha pagato l'affitto anticipato per quattro mesi, fa la spesa quasi tutti i giorni, va la bar e paga in contanti."

Nelle sue passeggiate Leo un giorno si fermo in un cortile tra due case dove dei bambini stavano giocando. Si mise a guardarli, i bambini si fermarono interdetti. Leo gli sorrise e poi proseguì.

Il pomeriggio andò da Silvano a prendere un caffè. Era appena passata l'ora di pranzo e nel bar e sulla pizza non c'era nessuno.

Silvano gli fece il caffè poi gli chiese "Non mi piace farmi gli affari degli altri, ma sei qui da un pasio di settimane e nessuno sa perché hai affittato quella casa e cosa fai nella vita."

Leo finì il caffè poi sorrise a Silvano. "Sono venuto qui perché è l'unica sistemazione economica che ho trovato. I miei genitori lavoravano in un circo che girava l'Italia. Io sono nato in una roulotte a Parma dove il circo si era insediato da una settimana."

"Sono cresciuto tra leoni, tigri e elefanti. Mia madre addestrava dei cavali bianchi, mio padre era uno dei clown. Crescendo ho voluto fare il clown anch'io e  l'ho fatto per quasi 20 anni."

Silvano gli fece cenno di sederi a un tavolino, versò un bicchiere di vino e se ne versò uno anche per se e si sedette davanti a lui. "Offro io - disse a Leo - Come mai ora non sei con il circo?"

"Perché purtroppo c'è stato un incidente. Eravamo verso Roma, da due giorni facevamo due spettacoli al giorno. Uno il pomeriggio e uno al sera. La notte del terzo giorno c'è stato un incendio che ha distrutto il tendone e causato danni. Le bestie sono state salvate, solo un inserviente è rimasto ferito"

"Il circo ha chiuso, troppi i danni per ripartire. Allora sono tornato da queste parti perché avevo una sorella che abitava a Forte dei Marmi. Mi avrebbe ospitato ma non sono mai andato d'accordo con il marito e allora lei mi ha trovato questa casa"

"Non è la stessa vita che facevo prima. I viaggi con il circo, gli spettacoli, dormire in una roulotte ma purtroppo sono troppo vecchio per ricominciare a trovarmi un altro lavoro."

"Non so che farò domani, ormai vivo giorno per giorno e i pochi soldi che avevo messo da parte mi serviranno per passare questi mesi in tranquillità. Poi vedrò quello che sarà."

Silvano aveva pensato di tutto ma non che Leo facesse il clown. "Mi dispiace, deve essere dura per te  cambiare abitudini e vita" disse Silvano. "Ti ringrazio - disse Leo - Ma ne ho viste tante me la caverò anche questa volta, ho sempre la macchina posso venderla" e sorrise.

Leo ringraziò Silvano e tornò a casa. Dopo un paio d'ore il paese conosceva tutta la storia di Leo. Qualcuno diceva che era tutta una bugia ma la maggior parte diceva che poteva essere vero, e che Leo era così taciturno e gentile che non poteva essere un mascalzone.

La sera Leo sentì bussare alla porta di casa. Aprì e si trovò davanti Silvano con un cartoccio in mano. "Posso entrare?" ... " Ma certo! Entra" disse Leo.

"Qui c'è una torta che ti manda la mì moglie." e posò il cartoccio sul tavolo. "Siediti - gli fece cenno Leo - Non ti dico di farti un caffè perché il tuo è più buono" 

"Leo, devo chiederti una cosa. Ti è rimasto qualcosa del tuo mestiere di clown? Intendo costumi, attrezzi..." Leo andò versi il baule verde, lo trascinò nel mezzo della cucina e lo aprì.

Tirò fuori il suo costume da pagliaccio, le scarpe giganti, una parrucca bionda a caschetto e li mise sul tavolo. "Questo era il mio costume, il mio nome da pagliaccio era Stringa"... Leo lo disse a bassa voce come se i ricordi di una vita passata sotto il tendone e nella segatura della pista riaffiorassero tutti insieme.

Silvano guardavo gli abiti di scena poi gli disse "Senti Leo, io e Clara abbiamo pensato che sarebbe belo se, nel salone delle feste del paese, tu facessi uno spettacolo per i bambini del paese. Sarebbe un modo per farti conoscere per quello che sei"

Leo si sedette, aveva gli occhi umidi. Silvano continuò "Ho già parlato con quelli del Circolo operaio e sono d'accordo a pensare a tutto loro. Dicci di quello che hai bisogno e ci pensiamo noi. Dev dire solo di sì"

Leo non poteva dire di no. Era stato accolto bene dal paese, erano stati tutti gentili e disponibili, doveva in qualche modo ringraziarli e quello, forse, era il modo giusto.

"Va bene, Silvano, ho solo bisogno di vedere il salone. Quando pensate di farlo?"

"Ti va bene la prossima settimana, il sabato sera?"
"D'accordo" disse Leo.

Il giorno dopo andò con Silvano al bar del Circolo, salirono a vedere il salone dove c'era il palcoscenico. Leo rimase piacevolmente sorpreso della bellezza, seppur povera, di quella sala e di quel palco.

La settimana prima dello spettacolo erano stati fatti anche dei manifesti che furono appesi in quasi tutti i paese della montagna. Li aveva stampati, gratis, un paesano che lavorava in una tipografia.

Su uno sfondo giallo c'era una grande stella rossa  e, a  grandi lettere nere, c'era scritto " Lo spettacolo di Stringa il clown " e sotto l'ora, la data e il luogo.

Leo aveva provato, da solo, il suo numero nella cucina di casa. Poche ore, prima dello spettacolo, Silvano lo accompagnò nel camerino dietro il palcoscenico aiutandolo a portare il baule.

"Sei pronto Leo?" ... "Prontissimo e grazie di tutto e di cuore Silvano..." Silvano gli diede una pacca sulla spalla e gli disse: "Portaci nel tuo mondo, Stringa!"

Leo si vesti con cura, i pantaloni larghi neri, le scarpe grosse, un maglione quasi ai ginocchi bianco e giallo, una giacca stazzonata rossa ciliegia.

Poi si truccò con cura, la biacca sul volto, si fece due righe verticali nere sopra gli occhi, la punta del naso e le labbra rosse, disegnò il contorno della bocca largo.  Provava davanti al piccolo specchio le smorfie e le espressioni.

La sala era pienissima, non solo di bambini, ma di tutti i paesani venuti anche dagli altri paesi. Quando si aprì il sipario, si accesero le luci e sul palco entrò Stringa inciampando e finendo lungo disteso. E fu la prima di una lunga serie di risate e di applausi.

Leo/Stringa si esibì, accompagnato dalla fisarmonica di Giacinto, mimando la salita con la corda, e ovviamente cadendo, facendo l'incantatore di serpenti e dalla cesta uscì un lungo calzino bianco e rosso e tante altre gag che avevano scatenato l'entusiasmo dei bambini e degli adulti.

Dopo un'ora e mezza di spettacolo anche con richieste di bis il sipario si chiuse su Leo/Stringa che inchinandosi e uscendo salutava tutti. 

La sala gli tributò un ultimo caloroso applauso e Leo/Stringa uscì dalla quinta e con le mani chiese silenzio. La sala si zittì come d'incanto.

Sul palco Leo si mise sul proscenio e disse:" Grazie a tutti della bellissima serata. Un ringraziamento di cuore lo devo a silvano a sua moglie e a tutti i soci del Circolo operaio."

Poi si accovaccio e tirò fuori dalla tasca della giacca una rosa di stoffa. "Questo fiore è per ognuno di voi. E ogni petalo di questa rosa è un sogno che si avvera. Non lasciatela appassire mai. Innaffiatela ogni giorno con il vostro l'amore e i vostri sogni diventeranno realtà."

"Stasera il mio sogno è diventato realtà grazie al vostro amore. Non pensavo che mi sarei mai più esibito da quando il mio circo è bruciato. Voi avete reso possibile, almeno per una notte, ridare una speranza al mio cuore. Abbiate cura di voi, vi voglio bene"

La sala rimase per un secondo in silenzio poi, come a un comando si alzarono tutti in piedi e applaudirono chiamandolo per nome "Leo, Leo, Leo!"

Leo si alzò in piedi una mano sul cuore e la rosa nell'altra. Le lacrime rigavano il volto, la biacca si mischiava con la matita nera ma erano lacrime di gioia non di dolore.


Divenne l'idolo dei bambini a cui, nella piazza insegnava giochi di prestigio con le carte e a fare i clown.

Sapeva di essere malato da tempo ma non l'aveva detto mai a nessuno. Un giorno Silvano andò a portargli una torta come faceva ogni settimana, trovò la porta aperta, entro e lo vide appoggiato al baule, esanime, in mano aveva la rosa di stoffa...

Se n'era andato, in silenzio... come le notti del paese.

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Io sono un clown e faccio collezione di attimi.
(Heinrich Böll)




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