A Modena quel giorno si protesta contro i licenziamenti ingiustificati alle Fonderie Riunite. Poco dopo le dieci di mattina una decina di lavoratori si trovavano all’esterno della fabbrica vicino al muro di cinta, cercando di parlare con i carabinieri schierati.
Un carabiniere sparò con la pistola, a freddo, uccidendo Angelo Appiani (30 anni, partigiano, metallurgico) colpito in pieno petto.
Immediatamente dal terrazzo della fabbrica altri carabinieri spararono con la mitragliatrice sulla folla di lavoratori che si trovava sulla Via Ciro Menotti oltre il passaggio a livello chiuso per il transito di un treno.
Arturo Chiappelli (43 anni, partigiano, spazzino) e Arturo Malagoli (21 anni bracciante) vennero colpiti a morte, molti furono feriti, alcuni gravemente.
La gente scappava, cercava riparo dai colpi della mitraglia che continuava a sparare, altri cercavano di assistere i feriti con medicazioni improvvise e li trasportavano al riparo.
Roberto Rovatti (36 anni, partigiano, metallurgico) si trovava in fondo a Via Santa Caterina, vicino alla chiesa, dal lato opposto e distante 500 metri dai primi caduti, aveva una sciarpa rossa al collo.
Mezz’ora era passata dalla prima sparatoria veniva circondato da un gruppo di carabinieri scaraventato dentro un fosso e massacrato con i calci del fucile, un linciaggio mortale.
Ennio Garagnani (21 anni, carrettiere) veniva assassinato in Via Ciro Menotti dal fuoco di un’autoblinda che sparava sulla folla.
Lo sciopero generale partì spontaneamente appena si diffuse la notizia del massacro. Un’automobile della Cgil con l’altoparlante avvertiva i lavoratori di concentrarsi in Piazza Roma.
Poco dopo mezzogiorno Renzo Bersani (21 anni metallurgico) attraversava la strada a piedi, in fondo a Via Menotti, all’incrocio con Via Paolo Ferrari e Montegrappa, un graduato dei CC distante oltre un centinaio di metri si inginocchiò a terra, prese la mira col fucile e sparò per uccidere.
Sei lavoratori assassinati, 34 arrestati, i numerosi feriti trasportati in ospedale vennero messi in stato di arresto, piantonati giorno e notte e denunciati alla magistratura per «resistenza a pubblico ufficiale, partecipazione a manifestazione sediziosa non autorizzata, attentato alle libere istituzioni per sovvertire l’ordine pubblico e abbattere lo Stato democratico».
Era questa l’Italia “democratica” ricostruita dopo il fascismo da padroni e democristiani. Ricostruita sulla pelle dei proletari e dei lavoratori che venivano sfruttati ferocemente nelle fabbriche e nei campi e, quando si ribellavano, venivano massacrati nelle piazze.
Questa è una delle storie nascoste e sconosciute di questo paese.
E oggi alcuni personaggi ambigui, provenienti da certa “sinistra” cercano di riscrivere la storia falsificandola per mezzo di libri, lezioni accademiche, programmi televisivi, film e spettacoli teatrali e facendo passare dirigenti democristiani, padroni e funzionari di Stato come “persone perbene”.
Ma cosa stava succedendo a Modena e nel resto del paese in quegli anni? Era in corso dal 1948 una controrivoluzione per azzerare la forza dei lavoratori nelle fabbriche e la tenuta dei sindacati e partiti di sinistra, una forza costruita nella resistenza e nell’immediato dopoguerra.
I padroni volevano abbassare il costo del lavoro e aumentare la produttività per orientare la produzione verso l’esportazione.
Picchetto davanti alle Fonderie Riunite 1949
Gli strumenti che usarono: la serrata e i licenziamenti collettivi e selettivi per ridurre il potere contrattuale dei sindacati e delle commissioni interne, l’aumento del ventaglio retributivo, salario sempre più legato alla produzione (cottimo e premio di produzione differenziato), intervento della polizia per sciogliere i picchetti e le manifestazioni; scioglimento dei “Consigli di Gestione”.
Nella città di Modena nei due anni 1947-49, ben 485 partigiani furono arrestati e processati per fatti accaduti durante la lotta di liberazione. 3.500 braccianti arrestati e denunciati per occupazione delle terre; 181volte la polizia intervenne nei conflitti di lavoro.
Le maestranze delle Fonderie Riunite, con 480 lavoratori – la metà erano donne- nel 1943 parteciparono agli scioperi contro la guerra e per il pane.
Dopo la “liberazione” i padroni “tornano proprietari”, è questa la scelta democristiana. Anche il padrone delle Riunite, il fascista Adolfo Orsi amico di Italo Balbo.
Adolfo Orsi al centro della foto
Orsi è padrone non solo delle Riunite, ma anche della “Maserati Alfieri”, delle “Candele accumulatori Maserati” e delle Acciaierie. Come altri padroni fascisti ringalluzziti dalle vittoria democristiana del ’48, padron Orsi inizia con tre giorni di serrata, chiamando la polizia a sgombrare i picchetti.
Adolfo Orsi
È la prima volta, dopo la liberazione, che a Modena la polizia interviene nel conflitti di lavoro. Sarà la prima di una serie di interventi sempre più aggressivi.
L’anno prima del “massacro” è il 9 gennaio 1949, è domenica e si tiene a Modena un comizio sindacale in piazza Roma, Fernando Santi, segretario generale della Cgil denuncia i licenziamenti e la serrata alla fonderia Vandevit e alla carrozzeria Padana.
Al termine della manifestazione, mentre la gente rientra a casa mescolandosi con chi esce dalla chiesa, si scatena una selvaggia e inspiegabile aggressione poliziesca con camionette e manganellate e perfino colpi d’arma da fuoco.
Il cambio di rotta era stato deciso dall’alto: colpire senza sosta il movimento operaio e sindacale per interromperne l’avanzata e ridurne la capacità contrattuale.
I funerali dei sei operai uccisi
Alla fine di quel ’49, padron Orsi regalò ai “suoi” dipendenti la seconda serrata e il licenziamento di tutti i 560 lavoratori. L’idea di Orsi era di assumere nuovi lavoratori non sindacalizzati né politicizzati.
Le “rivendicazioni” di padron Orsi erano di revisionare in peggio il premio di produzione, abolire il Consiglio di gestione, far pagare la mensa ai lavoratori, togliere le bacheche sindacali e politiche, eliminare la stanza di allattamento che le operaie si erano conquistate per poter andare in fabbrica con i figli.
Dopo un mese di serrata venne la risposta operaia: sciopero generale di tutte le categorie proclamato per il 9 gennaio 1950 in tutta la provincia.
Ma il prefetto e il questore (non dimentichiamo mai che prefetti e questori erano stati traghettati in blocco dal regime fascista a quello democratico/democristiano) negano alla Camera del lavoro qualsiasi piazza per la manifestazione sindacale.
Si racconta che il questore rispose alla delegazione di parlamentari e dirigenti sindacali che chiedevano una piazza: “vi stermineremo tutti”.
Dal giorno prima arrivano a Modena ingenti forze di polizia, si dice 1.500 con autoblindo, jeep, camion. Occupano la fabbrica e si dispongono sul tetto con le armi.
Da quel tetto spararono con la mitraglia sui lavoratori per uccidere.
“Affoga nel sangue il governo del 18 aprile“, titola a tutta pagina il giornale l’Avanti! del giorno dopo.
Il governo del 18 aprile è quello scaturito dalla vittoria democristiana del 18 aprile ’48: il governo dell’atlantismo, della rottura dell’unità sindacalE.
Nascita di Cisl e Uil con i soldi americani, della soggezione agli USA, della crociata anticomunista e soprattutto dell’abbattimento della forza operaia.
Modena non fu un fatto isolato. In quegli anni iniziava una repressione antioperaia feroce e sanguinosa. Nel 1948 sono stati uccisi 17 lavoratori in conflitti di lavoro, centinaia feriti e 14.573 arrestati.
Il sindacato di classe fu buttato fuori da moltissime aziende, oppure ridotto e emarginato. La dirigenza della Cgil, del Pci e del Psi fu piegata a più miti consigli in merito alla logica del profitto padronale e allo sfruttamento operaio.
Dopo quella dura sconfitta che dal ’48 si protrasse per tutti gli anni Cinquanta la classe operaia riprese l’iniziativa all’inizio degli anni Sessanta.
Dal sito https://contromaelstrom.com
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